PALESTINA HOTEL
I nostri occhi, di Roberta Carlini (il Manifesto, 9/04/2003)
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Jose, Taras, Tareq. Lavoravano per noi, per raccontare la guerra dal suo punto più estremo: la guerra portata nel cuore di una città di sei milioni di abitanti, la guerra scesa sulla terra. Raccontavano la morte in diretta, sono morti in diretta. Ma non sono morti per essere capitati nel posto sbagliato, sotto un fuoco incrociato, per la scheggia di una bomba o per un missile fuori centro. Stavano nel posto giusto, nel posto in cui da settimane si era concentrata tutta la stampa mondiale, nell'hotel al di qua del fiume - il Palestine - in cui tutti sapevano che «c'erano i giornalisti». Si racconta che alcune ricche famiglie irachene ci si fossero rifugiate proprio per questo: se ci sono i giornalisti, pensavano, staranno attenti prima di sparare lì.
E infatti l'ignoto carrista che ha sparato quel colpo, ieri mattina, è stato attento: ha mirato, ha aspettato, ha fatto fuoco, raccontano le testimonianze delle decine di occhi e penne presenti nell'hotel. Non sapremo mai chi l'ha mandato lì, che ordini aveva ricevuto, cosa sapeva del Palestine. Il comando militare parla di «autodifesa» e ipotizza la presenza di cecchini iracheni che nessuno dal Palestine ha visto né sentito; e racconta la stessa solfa («autodifesa») per le postazioni di Al Jazeera attaccate, per la tv di Abu Dhabi circondata.
Autodifesa? Mai la propaganda di guerra nel colpire il vero nemico della propaganda - l'informazione - è andata tanto vicino al vero. Sì, autodifesa dalle telecamere che magari inquadrano qualcuno che spara su soldati che si arrendono; bambini che sanguinano; uomini che piangono come bambini davanti alle macerie della loro casa e ai resti della propria famiglia. Autodifesa dalla verità, che se arriva nelle case di Madrid o di New York o di Roma è più pericolosa di un cecchino iracheno. L'informazione non si è allineata né si è «alleata», in questa guerra: anzi giorno dopo giorno l'ha raccontata per quello che è, nuda e cruda.
E' per questo che l'orrore della guerra di Baghdad oggi prende i nomi e i volti di tre giornalisti uccisi: non perché le loro vite fossero più importanti di quelle di altre migliaia di morti - civili iracheni, soldati iracheni, americani e inglesi; non perché i loro racconti, filmati e scritti, avessero in sé il potere di fermare le bombe e le uccisioni; ma perché i loro occhi erano - e sono - i nostri occhi sulla guerra. Non erano eroi, facevano il loro mestiere. Sapevano di correre dei rischi, ma mai avrebbero pensato di essere cannoneggiati a freddo. Se c'è qualcuno che può scomodare parole come democrazia e libertà a proposito di quanto sta succedendo a Baghdad, quel qualcuno ieri non stava nei carri armati dei «liberatori». Purtroppo, gli stava davanti.
CANNONATE SULLA STAMPA
Tre giornalisti uccisi a Baghdad, di Giuliana Sgrena (la Repubblica, 9/04/2003)
Sono quasi le cinque del mattino quando i cannoneggiamenti ricominciano e, annunciati da un fragore infernale, anche gli A-10 entrano in azione per lanciare i loro missili aria-terra che si dice siano in grado di sparare fuori 1.000 proiettili al minuto. E' l'alba, sopra Baghdad. Tareq Ayoub è un giordano di 34 anni, è qui soltanto da tre giorni e non se la sente di lasciare il tetto del palazzo dove ha i suoi uffici la televisione per cui lavora, al Jazeera, nemmeno se il fuoco diviene più intenso. La tv del Qatar si trova proprio sulla riva del Tigri, dalla parte dove sono arrivati gli americani. Una posizione decisiva per fare la cronaca dell'invasione. Ayoub filma tutto, e non si muove. E non si muoverà più, perché non appena le cannonate cessano il suo collega lo trova morto, così, da solo, sul tetto. La giornata peggiore per la stampa internazionale comincia nel sangue. Testimoniare quel che succede è sempre più difficile e pericoloso. All'hotel Palestine, dove sono riuniti quasi tutti i giornalisti del mondo rimasti nella capitale irachena per documentare questa guerra, l'eco della morte del collega giordano non si è ancora spenta. E' più o meno mezzogiorno, quando i fatti precipitano.
A qualche centinaio di metri, un tank M-1 sposta lentamente il suo cannone e lo punta sull'albergo. Più tardi, il filmato di un collega francese dimostra che il carro armato non ha dato alcun segno di nervosismo: il cannone si solleva con calma, resta immobile per un paio di minuti quasi prendesse la mira e poi spara.
Eravamo tutti lì, abbiamo sentito un boato fortissimo e abbiamo pensato che fosse caduto un missile vicino all'albergo. Invece, nelle stanze d'angolo al quattordicesimo e al quindicesimo piano, due reporter erano stati maciullati dal colpo. Racconta Ferdinando Pellegrino, del giornale radio Rai, tra i primi ad accorrere alle grida: «Josè Couso, di Telecinco, era a terra con un osso di fuori e una gamba quasi staccata dal corpo». Couso è in una pozza di sangue, e arriva già morto all'ospedale: aveva 37 anni e lascia la moglie e due figli. Un secondo collega, della ufficio Reuters al piano di sopra, Taras Trotsyuk, ucraino, 35 anni, è ferito in modo gravissimo e non ce la fa. Era un veterano, tra gli inviati di guerra: aveva lavorato in Cecenia, in Afghanistan e nei Balcani. Altri feriti, una fotografa libanese, altri due giornalisti dell'agenzia britannica. Sconcerto e rabbia tra tutti i presenti: a fine giornata, si organizza una fiaccolata.
Nel pomeriggio, il comando americano ammette che il carro armato ha sparato: «Per difendersi dai cecchini sul tetto dell'albergo e comunque avevamo avvertito i reporter che era pericoloso rimanere a Baghdad». Ma qui nessuno ha visti i cecchini e la versione non viene accreditata. Dice il corrispondente di Sky News, David Chater: «Non si è trattato di un incidente...non ho sentito un solo colpo provenire da nessuna zona qui intorno...Devono averci visto, ci hanno visto, noi li abbiamo visti, non c'è stato assolutamente nessun errore, sapevano che eravamo lì».
Non pensavamo di essere un obiettivo degli americani, anche se sicuramente l'informazione che viene da questa parte del fiume è scomoda per Bush. Il Pentagono ha fatto di tutto per imporre il ritiro dei giornalisti presenti a Baghdad, e non solo quelli americani. E quello di ieri è stato un ulteriore avvertimento, rinforzato dal monito che «la capitale è una zona di guerra a rischio» dove non si può assicurare nulla.
Questa è l'altra faccia della guerra, l'effetto delle bombe che cadono su una città di cinque milioni di abitanti, allo stremo, tenuta in ostaggio, senza che la comunità internazionale si preoccupi nemmeno di chiedere l'apertura di un corridoio umanitario.
Gli americani cominciano a manifestare nervosismo, cominciano a temere di non essere accolti come i liberatori dalla popolazione irachena: incontreranno i soldati, la Guardia repubblicana, i feddayn di Saddam, i miliziani del partito Baath, i civili che si oppongono all'occupazione. Probabilmente anche cecchini. La guerra è sempre sporca e questa lo è più che mai. Gli americani dovrebbero saperlo.
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