STORIA DI ALI, VITTIMA DELLE BOMBE
Unico sopravvissuto della sua famiglia, dodici anni, ha perso entrambe
le braccia. E manda un messaggio al mondo.
BAGHDAD. Ali Ismail Eedan è in un letto dell'ospedale Al
Kindi; la zia coperta dal velo nero è al suo capezzale. Ali
era in una delle due case nel quartiere Al Zafranya di Baghdad che
a inizio aprile sono state colpite da un missile americano e hanno preso
fuoco. Le fiamme hanno bruciato vivi dodici membri della sua famiglia
allargata (padre, madre , fratelli). Ali Ismail è, sopravvissuto,
non ha più braccia
bensì due fasciature poco sotto le spalle. L'intero torace
e il ventre sono di pelle nera, bruciata. Vedere Ali Ismail significa
non poter più pensare ad altro e volere fermamente che la
sua storia faccia il giro del mondo e vada a finire nelle mani di
chi conduce questa guerra. Si decide di vedere Ali, e il medico avverte:
«potete vederlo se volete, non lo disturberete, ma lui disturberà
voi», ed è così. Colpi di artiglieria si sentono
adesso qua fuori, molto vicino, ma il pensiero di Ali incontrato
stamattina sovrasta tutto.
Ali ha dodici anni ed è così bello, ha un viso dolce
e grandi occhi. Un'immagine che contrasta con quel che rimane di
lui. Le sue braccia, che erano bruciate come due tronchi d'albero
in un incendio, sono state segate via. La pelle del torace e dell'addome
è in necrosi. Di continuo i medici - tutti iracheni, bravissimi,
e increduli per quel che sta succedendo, 800 bombe su Baghdad la
notte scorsa e di continuo nuovi morti e feriti - gli prendono della
pelle dalla gamba e via via sostituiscono quella morta. Non è
affatto detto che non muoia presto, di infezione. Soffre, i medici
gli danno analgesici per ora non troppo poitenti, perché
fra un po' il male aumenterà e vogliono evitare l'assuefazione.
Hanno antidolorifici per fortuna; ma non è lo stesso in ospedali
di alter città sotto bombardamenti; e che succede agli Ali
che sono là?
Io e April, una dottoressa Americana dell'Iraq Peace Team con cui
cerchiamo di documentare i crimini di guerra, gli diciamo salam aleicum e mi sento subito ridicola.
Cosa mai gli si può dire che faccia differenza per lui? Poi,
malgrado il nostro camuffamento medico, lui vede che siamo straniere.
E sa che straniero è il missile che l'ha ridotto così.
Ali Ismail risponde educatamente, volgendo la testa. Poi, come fa
spesso - dice il medico, Mohammed Abrisan - cerca di guardare le
sue braccia che non ci sono più. Allora pensiamo di proiettarlo
nel futuro. Suggerisco al medico che, se lo ritiene opportune e
utile, gli può dire che in Italia ci sono centri che «rifanno
le braccia». Il medico gli traduce e forse rendendosi conto
della pochezza della consolazione, cerca di distrarre Ali sulla
forma dell'Italia: «L'hai studiato no? Sembra uno stivale...».
Ali annuisce, ripete «Italia», che si pronuncia come
facciamo noi. La zia alza gli occhi per dire inshallah, se Allah
vuole succederà. (E se Ali sopravvive, deve succedere davvero,
c'è un centro ipersofisticato che si offre?). Che gli si
può dire ancora? Niente. Una carezza, noi che abbiamo la
mano per farla. April gli dice che deve mangiare, per rimanere robusto,
e agita le braccia per visualizzare la forza, poi le blocca di colpo,
perché lui le sta guardando.
Ali è molto coraggioso, very brave, dice l'infermiere Muftaz.
Non si lamenta troppo del dolore, non piange. Ma guarda le braccia.
E chiede di sua madre, dei suoi. «Continuiamo a mentirgli,
gli diciamo che sono in un altro ospedale e hanno le gambe rotte
e non possono venire, ma lo salutano e presto...». Tanto,
forse non sarà mai necessario dire ad Ali la verità.
Può essere che sia già morto mentre lo descrivo, o
forse domani, o mentre qualcuno legge di lui.
Non sappiamo quanti Ali ci siano nei letti degli ospedali iracheni.
Errori di mira (quel 10% di bombe e missili che rimangono stupidi),
oppure effetti collaterali (operazione riuscita, ma civili circostanti
morti). In ogni caso, la convenzione di Ginevra vieta di mirare
a obiettivi militari se c'è un eccessivo rischio di colpire
i civili. E allora, che dire dell'ospedale di Al Suera, a 180 km
da Baghdad sulla strada verso Kut? Appena fuori dalla stanza di
Ali un uomo alto in gallabeia parla con il medico; poi il nostro
accompagnatore Telib ci dice: «Il figlio di questo Said Obedi
era nell'ospedale di Al Suera per un'appendicite. Ma il 30 marzo
schegge di un missile destinato al vicino centro di telecomunicazioni
sono entrate nell'ospedale e una persona è morta. I pazienti
fra cui suo figlio sono stati trasferiti ad Kindi. Ebbene per la
convenzione di Ginevra colpire un centro di telecomunicazioni vicino
a un ospedale significa due violazioni in una: le telecomunicazioni
non sono un obiettivo militare (molti feriti sono morti nei giorni
scorsi per assenza di una rapida comunicazione telefonica, non c'è
un telefono che funziona in tutta Baghdad), e comunque mirare a
qualcosa che è vicino a un ospedale è proibito, il
rischio è troppo grande».
(Marinella Correggia, il Manifesto 9/04/2003)
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