GIORNALISTI CIRCONDATI
a Mosul "liberata", una folla araba inferocita minaccia i reporter occidentali
I colpi dei fucili frustano l'aria a Mosul. Non è per festeggiare la sua caduta.
Qui si spara per uccidere, rubare, umiliare. La terza città dell'Iraq, da ieri mattina (11 aprile) virtualmente nelle mani della
coalizione curdo-americana, è in realtà una terra di nessuno. I militari Usa non ci sono, i peshmerga si tengono
alla larga dal centro. Così la piazza dove il ritratto di Saddam Hussein è stato divelto è ora preda di saccheggiatori e bande di tagliagole, che razziano dove vogliono e cercano di farsi giustizia con chi possono.
Magari gli odiati americani.
Con l'inviato di El Pais, Juan Carlos Sanz, stiamo parlando ad alcuni passanti davanti al palazzo del governatorato. In alto, la bandiera ufficiale è spezzata. Il palazzo a fianco sta bruciando, e dalle sue viscere spuntano alcuni ragazzi con in mano quadri e tappeti. Improvvisamente, da un lato della piazza sbuca una folla di manifestanti. Sono arabi sunniti, innalzano ritratti di chissà quale leader religioso. Ci vedono. Facciamo in tempo a salire in macchina, ma in un attimo circondano il fuoristrada.
Nascondiamo i telefoni satellitari, forse la cosa più preziosa che abbiamo assieme ai passaporti. "Allah u akhbar", urlano. Il più accanito è un vecchio. Ha chiamato gli altri a raccolta e ora spingono e colpiscono l'auto da tutti i lati. "Ecco gli americani", si passano la voce. Cercano di spaccare i vetri con i kalashnikov, altri alzano le spade ricurve che portavano alla manifestazione. "Siamo giornalisti", diciamo in arabo, "siamo europei". Ma gli uomini con la kefiah sono chiaramente eccitati da qualche proclama alla guerra santa, urlano, non capiamo che cosa, e ora puntano i fucili.
Fa molto caldo, ma per precauzione avevamo chiuso tutti i finestrini. L'autista però è sparito. Sul lato destro della vettura vediamo un uomo con in mano una bomba a mano, sta cercando di capire dove può infilare la granata. Ha la mano chiusa a tappo sulla spoletta. La folla grida impazzita contro di noi. Davvero pensiamo che a Mosul in questa piazza è venuta la nostra fine. Ma ecco che dal gruppo si stacca un uomo, lo ha chiamato il nostro conducente. E' il guidatore di un'agenzia delle Nazioni Unite. Ha in mano anche lui un fucile e minaccia la folla, che si allontana di qualche metro. "Sono giornalisti, non sono americani". Il nostro autista rientra in fretta nell'auto. Innesta le chiavi. "Parti lento, non sgommare, allontanati tranquillo", gli intimiamo mentre la folla rimane indietro a urlare e inveire. "Volevano ammazzarmi", dice lui. La sensazione del pericolo corso arriva qualche minuto dopo, ed è una paura che taglia le gambe.
Giovedì la caduta di Kirkuk, città per metà curda e dai peshmerga considerata "il cuore del Kurdistan", era stata celebrata in ben altro modo dalla folla festante. Ma Mosul è in gran parte araba, sunnita. E il crollo del regime ieri l'ha trasformata in un inferno, dove adesso pure l'acqua e i generi alimentari cominciano a scarseggiare. Non c'è aria di festa nelle sue strade. E non c'è legge. La gente urla: "Viva la libertà". Ma a Mosul la libertà si è trasformata in anarchia. Già all'ingresso, sul lunghissimo viale che porta verso il centro, l'atmosfera era cupa, e sulle teste dei soldati di guardia ai posti di blocco il turbante dei curdi lascia spazio alle kefiah arabe. Su entrambi i lati della strada gli edifici appaiono sventrati dai saccheggi e dagli incendi. Intorno una folla feroce si contende scatole di cibo, mobili, sacchi di juta, lottando nella polvere. In alto un fumo grigio, penetrante, svetta da diversi pozzi di petrolio incendiati non molto lontano.
I negozi sono sbarrati, non aperti e accoglienti come a Kirkuk. Ma Kirkuk non è stata toccata dai bombardamenti americani. Mosul, araba, è stata invece colpita in più quartieri. Da una moschea giunge l'eco di fedeli in preghiera. Ma nel distretto sunnita di Nauassa c'è rabbia. Un uomo, Mohammed Yassin, chiede aiuto per trovare la sua auto. "L'ha rubata un peshmerga - spiega - e ora non c'è nemmeno più la polizia".
Nell'aria risuonano continuamente colpi di arma da fuoco. Lungo tutta la città ci sono assembramenti, liti, sparatorie. Tanti episodi di vandalismo puro, ma anche regolamenti di conti. I soldati iracheni hanno lasciato la città all'alba, e smesse le divise e abbandonati i fucili, si sono diretti a piedi a sud, forse verso Tikrit. Ma nel caos del dopoguerra la città appare in mano a nessuno, e del tutto fuori controllo. "Io voglio la libertà - grida un impiegato arabo di nome Marwan - ma dove sono gli americani? Che cosa succederà qui domani e dopodomani?".
In effetti, nel centro di Mosul non c'è l'ombra di un marine Usa. E anche i peshmerga si tengono lontani. "Non possiamo entrare - dice il primo soldato curdo incontrato a un angolo in periferia - per farlo aspettiamo ordini e finora non ci sono arrivati". Le razzie non hanno risparmiato niente. E a partecipare al sacco sono stati pure migliaia di curdi arrivati fin qui da Erbil, dove hanno portato indietro condizionatori e frigoriferi, bombole del gas e letti, nonostante i continui posti di blocco dei peshmerga che hanno in parte arginato la furia della ruberia.
Tutti gli edifici sono stati svuotati. La banca centrale è stata assaltata e il denaro depredato o sparso per aria. La banca statale Rashid data alle fiamme. La biblioteca dell'università, con i suoi manoscritti rari, saccheggiata nonostante i ripetuti inviti lanciati dai minareti a rispettare la città. All'ospedale "Saddam Hussein" tre delle cinque ambulanze sono state prese da uomini armati, descritti come curdi. All'altra clinica "Jumhuriya" le ambulanze a mancare all'appello sono tutte e otto. "Non c'è nessuna sicurezza - dice il dottor Darfar Ibraim Hasan - tutto lo staff medico è terrorizzato". Mosul è libera, ma sembra un girone dei dannati.
(Marco Ansaldo, la Repubblica on line, 12 aprile 2003)