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La distinzione fondamentale tra parola e immagine (con questo termine d'ora in avanti intenderemo l'immagine fotografica nella sua accezione di «raffigurazione ottico-meccanica» di una realtà) è posta da quasi tutti gli studiosi nel diverso ambito in cui l'una e l'altra debbono essere collocate come segni. Da una parte - secondo molti - la comunicazione verbale si riferisce ad un mondo «concettualizzato», cioè già diventato pensiero. Dall'altra, l'immagine fa necessariamente riferimento ad una realtà sempre specifica. L'esempio classico è dato dal fatto che la parola «cane» (sia come insieme di suoni pronunciati, che di lettere alfabetiche scritte) non è legata a nessuna entità che abbia particolari caratteristiche di altezza, di pelo, di profilo ecc. Mentre l'immagine «cane» è, in ogni caso, una realtà determinata, casi come si vede nel rettangolo di carta sensibile, e che fa riferimento ad uno specifico animale - con tutte le sue caratteristiche - che è stato assunto come «soggetto». ... Per la linguistica strutturale, la parola è un «segno». La nozione di segno implica una relazione tra due entità, che gli strutturalisti chiamano «significante» e «significato». Prendiamo, ad esempio, la parola «casa». Nel linguaggio parlato noi la pronunciamo accostando continuamente il suono delle due sillabe ca+sa. Nel linguaggio scritto noi giustapponiamo, unite, le quattro lettere c-a-s-a. Ebbene, questa pronuncia di suoni e questo schema visivo di lettere alfabetiche sono due «segni significativi» che, nel sistema della lingua italiana, sono legati ad un «significato preciso». Il «significato», non è assolutamente - nella lingua - la cosa concreta a cui si riferisce il parlante, bensì la rappresentazione psichica della cosa, il concetto, l'immagine mentale attraverso la quale l'uditore comprende perfettamente il proprio interlocutore quando pronuncia, ad esempio, una frase del tipo «La casa è un bene primario». È evidente che in questa frase, il segno «casa» non è riferito a nessun edificio in particolare. La relazione che lega il «segno significante» c-a-s-a al significato che immediatamente viene alla mente, viene definita «processo di significazione» o «significazione primaria». Per restare all'esempio fatto sopra, è chiaro che se tutti gli italiani fossero d'accordo nel definire, il concetto «edificio che serve come abitazione» non più come lo schema grafico c-a-s-a (e con il suono sillabico corrispondente), ma - per pura ipotesi - con lo schema grafico i-s-f-a (e con il suono corrispondente), noi potremmo benissimo affermare che «L'isfa è un bene primario» e tutti comprenderebbero ciò che vogliamo comunicare. Se tutti fossero d'accordo, abbiamo detto: cioè si tratta di una convenzione sociale che, in fondo, non ha bisogno di motivazioni. Cosa succede quando applichiamo questo schema binario (significante-significato) al sistema fotografico? Anche la fotografia è un «segno significante» rappresentato da un concreto rettangolo di carta sensibile con la sua struttura materica (carta, cartoncino) con la sua superficie (lucida, matt, politenata ecc.) con le sue partiture di bianconero o di colore variamente disposte. Tale «segno significante» viene definito più propriamente «segno iconico» in quanto non strutturato intorno a dei suoni sillabici, ma mediante delle «figure» o fenomeni grafici. Noi però avvertiamo subito, guardando una fotografia, che le linee o macchie bianche e nere non stanno per sé, bensì tendono a stabilire un legame con qualcosa d'altro: cioè hanno un «significato» . Ora, se noi guardiamo quello che comunemente viene chiamata la «fotografia di un albero», cosa ci vediamo? Forse un concetto? Una immagine mentale? No certamente: noi vi vediamo «ciò che è rappresentato», cioè un albero particolare, con un tronco determinato e con una ramificazione specifica. È ben vero che nessun centimetro quadrato della fotografia è identico alla immagine che noi vedremmo ponendoci materialmente davanti all'albero in questione. È altrettanto vero che nessuno dei toni grigi della fotografia corrisponde a quella che noi chiamiamo realtà. Così come è vero che due stampe derivate dallo stesso negativo possono essere molto diverse e che quindi neppure la stampa è una pura trascrizione del negativo, come il negativo non è una pura trascrizione della realtà. Eppure, noi riusciamo a intendere ciò che vi è raffigurato. Perché? Evidentemente perché il codice fotografico si avvale di convenzioni (bidimensionalità, riduzione ecc.), che tendono a costruire un modello di relazioni tra i fenomeni grafici assai vicino (per non dire uguale) a quello che noi utilizziamo nel percepire realmente l'oggetto. È in questo senso che va intesa l'affermazione <«il segno iconico è analogo al reale»». Esso si basa quindi sulle strutture profonde della percezione e tende a porsi come riproduzione di una esperienza naturale. La conclusione è veramente importante: se la fotografia ripete il processo percettivo che viene attivato davanti ad un rettangolo di carta analogamente a quanto succede davanti alla realtà, il processo di significazione della fotografia è «obbligato >. In altre parole - al di là delle convenzioni proprie del procedimento - non è mai possibile sostituire un insieme di linee e macchie bianconere con un altro e pretendere (magari mettendosi d'accordo tutti) che entrambi significhino la stessa identica cosa. Come era invece possibile fare, abbiamo visto, sostituendo il suono «isfa» a quello «casa». In questo senso il «segno fotografico» non è affatto sottoposto alla convenzione sociale e - fondandosi sulle strutture profonde del processo neuro-percettivo - non ha bisogno di essere «imparato» (come invece si impara una lingua per legare parole e concetti). Di qui un'importante conseguenza: e cioè la possibilità di parlare di universalità della fotografia. |
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